Legittime evasioni

“È inutile sbarrare le porte alle idee, le scavalcano.”

Klemens von Metternich

Saluto la fine di gennaio con un insolito omaggio a Silvio Pellico (1789-1854), ricordato prevalentemente per Le mie prigioni. Grazie a Google, ho trovato una versione integrale dell’opera, l’edizione pubblicata a Parigi nel 1835, una copia custodita gelosamente in una biblioteca dell’Università del Michigan. Da subito mi hanno spiazzato le prime righe dell’incipit: “Il Venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano…lascio la politica ov’ella sta e parlo d’altro.”[1]

Ma come? Ci hanno incrinato per anni con la storia di Silvio Pellico imprigionato ingiustamente nello Spielberg, con l’immagine stampata a imperitura memoria di lui rinchiuso in una celletta a scrivere note virulente contro gli austriaci, insistendo sulle sue idee patriottiche e lui invece per sua ammissione confessa un’intenzione diversa…

Il volumetto dedicato agli anni di prigionia, di cui solo un anno e mezzo scontato in Italia e il resto a Brno, parla infatti di tutt’altro.

Nel tentativo maldestro di creare un ritratto ideale di sé, Pellico fin dalle prime pagine rivela un fervore religioso impressionante, disseminando il resoconto della sua incarcerazione con aneddoti di un’ingenuità disarmante, in uno stile a volte lezioso, ricco di diminutivi che dovrebbero intenerire il lettore, ma che invece a lungo andare stuccano. Nel carcere di Torino fa amicizia con un orfano sordomuto, che battezza subito con un soprannome infelice “il mutino”, a cui lancia pezzi di pane dalle sbarre, come a un cane bisognoso d’affetto. Qui scopre che l’amico Melchiorre Gioia è stato imprigionato e per un breve periodo i due si salutano dalle rispettive celle sollevando un lembo di fazzoletto, finché non vengono scoperti e ogni futura comunicazione sospesa. Silvio si innamora del canto di una donna che si distingue dal vocio sguaiato delle sue compagne per il tono pieno di grazia, e prontamente le assegna il nome di Maddalena. Deriso dai carcerati per aver dimostrato un’eccessiva compassione nei confronti della donna, per cui si è preso una cotta, e che non ha mai visto, capisce ben presto che è meglio tenere certe confessioni per sé: “mi spiegai e non fui capito.”[2]

Sul muro della cella rimane colpito da alcuni versi firmati dal Duca di Normandia, uno strano personaggio che dice di essere Luigi XVII e di essere stato usurpato dallo zio Luigi XVIII, che lo intrattiene con racconti degni di una fiction: “io non potendo crederlo, pur l’ammirava.”[3]

Viene trasferito a Venezia, nella prigione dei Piombi, città che aveva visitato l’anno prima alloggiando all’hotel della luna. Passando per Piazza San Marco si ricorda le parole profetiche di un mendicante che aveva incontrato in quell’occasione, e che l’aveva subito riconosciuto come forestiero, “lei è felice, invece per me questo è un luogo di disgrazia.”

Il carceriere, la moglie e la figlia conoscono le tragedie di Pellico, tutti hanno letto Francesca da Rimini e hanno per lui un trattamento di riguardo. Pellico passa le giornate a leggere la Bibbia, a scrivere bozze di tragedie, allietato dalle visite della figlia racchia del carceriere che però prepara un ottimo caffè, a differenza della “acqua calda” della madre e lo distrae dalle punture delle zanzare. Un caffè tira un altro, e Pellico si prende un’altra cotta, comincia ad affezionarsi alla racchia, che però lo tratta come un padre, e gli confessa di essersi innamorata di un altro. Pellico si deve accontentare del ruolo di confessore, ascolta gli sfoghi della racchia, e tra i due nasce un’amicizia non ben definita. Arrossisce teneramente quando lei gli chiede di tradurle alcuni passi del Cantico dei Cantici, imbarazzatissimo, salta volutamente dei pezzi che considera troppo spinti. Quando ormai gli è chiaro che la racchia è più che un’amica, gli viene detto da un altro carceriere che la ragazza si è ammalata ed è stata mandata in campagna. Pellico per giorni non si dà pace, finché riceve dal suo secondino una lettera da un suo ammiratore, un lettore delle sue opere, folgorato dalla sua Francesca da Rimini. All’inizio è titubante, non sa se credere al secondino, che nel frattempo ha già soprannominato come “Tremolino”, ha paura di rispondere, ma dopo aver esitato a lungo, decide di abbandonarsi nuovamente a una promessa di amicizia, rassicurato dalla guardia complice nel mantenere segreta ogni futura corrispondenza tra i due. Tremolino gli annuncia le missive con una frase concordata: “sognai, mi gera un gatto e tu mi accarezzavi”. E qui la scena involontariamente si fa comica.

Inizia così una fitta corrispondenza con l’ammiratore misterioso che si firma con il nome di Giuliano. Pellico ancora una volta si fa prendere dall’entusiasmo e dopo un’accesa discussione epistolare sulla religione e il cristianesimo, Giuliano replica con una lettera piena di insulti. Pellico amareggiato e sorpreso dal gesto, decide di perdonare la reazione intollerante dell’amico ma Giuliano è risoluto, non ne vuole più sapere. Dopo l’ennesimo tentativo conciliatorio di Pellico che scopre che l’amico nel frattempo si è ammalato, Giuliano rompe il silenzio con un laconico “noi non ci amiamo.”[4]

Pellico ripiomba in una solitudine senza speranza, soffre moltissimo, si dedica come sempre alla lettura della Bibbia. Dopo un incendio che coinvolge parte dell’edificio delle carceri veneziane, viene trasferito all’isola di San Michele insieme ad altri prigionieri politici. Condannato a morte, il 21 Febbraio del 1822 gli viene comunicato che l’imperatore gli ha commutato la pena a quindici anni di carcere nella fortezza dello Spielberg, successivamente ridotta a sette anni e mezzo.

Nella nuova sistemazione, si prospetta una realtà durissima, viene sottoposto a tre perquisizioni giornaliere, legato con catene, malnutrito con pane e acqua e qualche razione di minestra rancida. Si ammala immediatamente, ma il carceriere Schiller, un vecchio burbero ha pietà di lui trattandolo con meno severità. In cella stringe amicizia con un nobile, il conte Antonio Oroboni con cui condivide le sue passioni letterarie. Oroboni gli ricorda il mai dimenticato Giuliano. Supera l’asprezza del carcere divorando libri, prevalentemente classici, Shakespeare, Scott, Byron, migliora la sua conoscenza del greco continuando a rileggere Omero. Ormai non riceve più notizie dalla famiglia, scrive per distrarsi trame di tragedie. Anni sempre più bui, rattristati dalla perdita graduale di amici prigionieri come lui, addolorato per la scomparsa dell’adorato conte Oroboni, che viene ricordato con le ultime parole pronunciate in punto di morte: “io perdono di cuore i miei nemici.”

Pietro Maroncelli cerca di consolarlo come può, in condizioni di salute sempre più gravi, provato da un tumore al ginocchio, Pellico lo assiste mentre gli amputano una gamba. La reclusione si protrae oltre i termini previsti dalla condanna iniziale, e Pellico finisce per scontare dieci anni di carcere, salvato da continue evasioni narrative, allegando in appendice alle sue memorie oltre ai suoi scritti, le riflessioni dell’amico Maroncelli, brevi versi, addizioni compensatorie di vite mai vissute.


[1] I capitolo de Le mie Prigioni, 1835, Parigi.

[2] Ibidem, p. 30.

[3] Ibidem, p. 45.

[4] Ibidem, p. 99.

8 pensieri su “Legittime evasioni

    1. Grazie Nunzio, l’ho ricondivisa perché un lettore aveva cliccato l’articolo, una storia forse poco conosciuta che riserva delle sorprese!

  1. …che storia ….complimenti!

    Ho letto con piacere….vero è la vita di uomini che hanno fatto la storia italiana non si conosce mai abbastanza. Parlo dal lato umano, è chiaro..magari sono ben note le loro azioni ma il resto e sconosciuto ai più (compresa io)…

    grazie e buona settimana
    .marta

    1. Grazie Marta, sicuramente un’immagine diversa dal Pellico delle antologie…è una storia triste ma sorprendente per certi aspetti…buona settimana anche a te 🙂

Rispondi