Venezia #6: San Polo

Mio blu – dice –

Mio blu.

Lo sono.

E anche più del cielo.

Ovunque tu sia

Io ti circondo.

 

Yannis Ritsos

 

 

Una volta scesa dall’autobus a Piazzale Roma, procedo spedita verso i Frari, con una furia sospetta, come se avessi un affare urgente da sbrigare, invece voglio solo distanziarmi dagli studenti in gita scolastica, qualche gomitata arriva comunque, hanno sempre degli zaini troppo ingombranti, poi taglio per calle Morosin, mi infilo nella pancia di una strettoia scorciatoia che sbuca vicino all’ultimo ponte che porta a campo San Polo, controllo se esiste ancora il negozio che ha vestiti degni di una cerimonia Klingon, una presenza rassicurante proprio perché surreale, e qui comincio a rallentare, in omaggio a un mio amico napoletano che diceva: “io non cammino, passeggio.”

San Polo è un campo grandissimo, camaleontico secondo le stagioni, ora di inverno ospita persino una pista da pattinaggio sul ghiaccio, a fine estate uno schermo gigante su cui rivedere i film della mostra del cinema in programma al Lido. Le sedie sono di una scomodità leggendaria, se si sposta il tuo vicino, oscilli anche tu. Nel caso di trame particolarmente noiose, hai sempre la distrazione dello scenario nello scenario, guardi altrove, veneziani affacciati alle finestre che se non altro seguono il sonoro, squarci di cielo o cominci a odiare seriamente il tuo vicino di sedia. Qui però ho visto anche bellissimi film, devo ammettere quasi tutti drammatici, e quasi tutti non italiani, molto spesso strazianti – i russi in questo sono maestri – come nel caso de Il Ritorno di Andrej Zvjagintsev, vincitore del Leone d’oro una decina di anni fa, a sorpresa perché era il suo esordio cinematografico. La storia ruota attorno alla vita infelice di due fratelli adolescenti, Vanya e Andrej, uniti in una sorta di invincibile alleanza fraterna per colmare l’aridità di un ambiente famigliare poco accogliente: madre addolorata dall’abbandono del marito e amareggiata, padre assente e quindi inesistente. Insieme hanno imparato a gioire di piccoli svaghi creati dal niente, già rassegnati alla mancanza di prospettive, finché improvvisamente dopo dodici anni si rifà vivo il padre, proponendogli una vacanza di pesca sul lago Ladoga. La madre cerca di opporsi con tutte le sue forze, ma i ragazzi, incuriositi e allietati dalla novità di un viaggio, partono all’avventura. Il sogno si trasforma presto in incubo, la convivenza forzata mette in luce relazioni disastrose, scopriamo un uomo divorato dai sensi di colpa, brusco nei modi, incapace di aprirsi a un dialogo, sordo ai desideri dei figli. Il paesaggio e le atmosfere sospese tra nostalgia e flashback rimandano al genio di Tarkovskij, capace di illuminare lo squallore con occhi amorevoli, cambiandone per sempre il senso. Proprio come succede a volte a Venezia, epifanie inaspettate che avvengono per caso passando per certi spazi, man mano che i passi diventano pensieri. Lascio alle mie spalle l’edicola ormai convertita a bazar, e ritorno al traffico delle calli, come una gazza mi faccio distrarre da pietre verdi smeraldo che brillano in una vetrina.

 

 

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