Freespace – Giardini e Vaticano – I parte

A S.C.

Se volete farvi un regalo, prima di andare a vedere la Biennale Architettura (aperta fino al 25 Novembre 2018), passate per l’Isola di San Giorgio. La visita varrebbe solo per la Chiesa di Andrea Palladio e le ultime grandi tele di Tintoretto (quest’anno, cinquecentenario della sua nascita, a Venezia grandi celebrazioni con due mostre straordinarie a Palazzo Ducale e all’Accademia) e l’Adorazione dei Pastori del Bassano. Qui, nei giardini che si affacciano sulla parte centrale della laguna veneziana, dieci cappelle progettate da grandi architetti, per la prima volta il Vaticano, un esordio magnifico curato da Francesco Dal Co. Partecipano Andrew D. Berman (USA), Francesco Cellini (Italia), Javier Corvalán Espínola (Paraguay), Flores e Prats (Spagna), Norman Foster (Gran Bretagna), Terunobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juacaba (Brasile), Smiljan Radic Clarke (Cile), Eduardo Souto de Moura (Portogallo). Oltre ai dieci spazi sacri l’Asplund Pavilion dello studio veneziano MAP che contiene i disegni di Gunnar Asplund (1885 – 1940) sulla cappella del bosco, le tradizionali costruzioni in legno scandinave, le Stavkirker, la conversione della basilica romana dalla pietra al legno.

Qui ognuno avrà la sua preferita e la decisione sarà insindacabile. Sono luoghi dell’anima, si sceglie per affinità. Tra tutte spicca la stavkirke di Norman Foster, delicata struttura in legno, ossatura esile aperta tra terra e cielo. E se si procede oltre, la vista si apre su uno scorcio di laguna azzurra che inquadra sullo sfondo l’isola di San Servolo e il Lido in lontananza, e oltre quella striscia di terra, il mare.

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Ai Giardini le cose cambiano. A volte ho avuto la sensazione che di tutto quello spazio libero (che quest’anno è anche il tema della Biennale) non si sapesse cosa farne…molti appunti sparpagliati nei Padiglioni/Nazioni, con scritte a terra e sui muri, con soluzioni lasciate in sospeso. Si riparte da un’accurata ricerca di appigli storici, geografici, politici, sociali. La crisi è profonda.

La Gran Bretagna che ha vinto una menzione speciale, ha svuotato tutto, una bella tabula rasa, il Padiglione è un enorme spazio bianco vuoto e poi a fianco, una struttura di metallo isola (ISLAND) che si apre al mondo. Tra le 4 e le 5 tè per tutti, menta e lime (il nostro), offerto sulla spettacolare terrazza che ancora una volta sorprende per il belvedere.

La Svizzera che ha vinto il Leone d’oro ospita un progetto che gioca sul fuori scala, House Tour, mobili piccoli e grandi, porte lillipuziane e soglie giganti, rigorosamente in bianco.

Il Belgio anch’esso premiato, ha scelto un’agorà pubblica blu, espressione spaziale del sistema politico europeo…unica richiesta, togliersi le scarpe prima di camminare sulla piazza pubblica.

La Germania con l’installazione Unbuilding Walls, a 29 anni di distanza dal crollo di quella rigida e dolorosa barriera riflette sulla necessità di andare oltre i muri.

La Francia si interroga sul tema di libertà e identità, luoghi infiniti, infrastrutture pubbliche che dovrebbero agevolare l’integrazione.

La Norvegia, Finlandia e Svezia, il Padiglione Nordico da cui sbucano alberi, cerca di stabilire una relazione tra geologia e umanità. Un’altra generosità, è il nome dell’installazione che respira grazie a grandissime cellule case pianeti che vivono grazie all’interazione con l’ambiente nell’era dell’Antropocene.

L’Australia risponde con un giardino caotico che ha una sua grazia, parte degli arbusti sono bruciati dal sole.

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Raggiungendo i confini dell’Impero per raggiungere l’Austria e gli altri padiglioni la consapevolezza di un nuovo inizio è necessaria.

Freespace, riaffiorano ricordi che pesano come mille anni.

Siamo già verso l’ora di chiusura, tempo di lasciare i giardini per visitare la prossima volta le Corderie dell’Arsenale.

Eppure – chissà –

là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia

la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo

tra ferri arrugginiti e ossa di tori e di cavalli,

tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro

e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro. [1]

§

[1] Tre poemetti, di Yannis Ritsos, Elena, traduzione di Nicola Crocetti.

 

 

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