Ritrovamenti

English: "Idiot" (1910). Film screen...

 

 

 

 

 

Un essere che s’adatta a tutto: ecco, forse, la miglior definizione che si possa dare dell’uomo.

Fëdor Dostoevskij

Il primo ricordo che ho risale a quando avevo due anni. Ricordo solo una stanza bianca, con una luce quasi accecante, ero spaventatissima. Non ho mai avuto paura del buio, invece l’intensità di quella luce non l’ho mai dimenticata.

Avevo avuto un attacco di convulsioni con febbre altissima e mi avevano ricoverata in ospedale. Fui messa sotto osservazione per una notte, legata al letto, mia madre appena lo scoprì fece una scenata degna di Anna Magnani e mi portò via con la delicatezza che poteva avere un’orsa ferita.

Dell’episodio in famiglia non se n’è mai parlato più di tanto, so solo che per altri sei anni, sono stata costretta a sottopormi a dei controlli periodici, primo fra tutti l’ispezione obbligatoria dell’elettroencefalogramma.

Da allora odio l’odore acre dell’aceto, forse perché ha lo stesso odore delle fialette che mi spruzzavano in testa prima di attaccarmi gli elettrodi. Quando vedevo che la macchina riproduceva con ritmo cacofonico una sfilza di zig-zag, cominciavo a preoccuparmi, pensavo che non fosse normale, agitata ma muta come un pesce, mentre l’infermiera friulana svolgeva meccanicamente le sue mansioni con una dose impercettibile di umanità, senza prestare nessuna attenzione al mio imbarazzo da bambina adulta. Mia madre mi aspettava fuori con quel suo tipico sguardo fiero sempre teso, pronta ad azzannare qualcuno se fosse stato necessario. Capivo che non era grave, semplicemente guardando l’espressione dei suoi occhi quando leggeva il responso che l’infermiera le consegnava con efficienza militaresca alla fine della visita.

A otto anni finalmente mi liberarono dal supplizio dell’elettroencefalogramma, non so se il merito fosse da attribuire a un medico tirolese che mi aveva curato o un colpo di fortuna, smisi di prendere la mia mini pastiglia quotidiana abbandonando la routine di quelle fastidiose intrusioni. Mi accontentai soddisfatta della spiegazione sommaria che mia madre mi diede: “non c’è n’è più bisogno, gli esami erano solo per precauzione.”

Dopo quel comunicato breve ma efficace, l’argomento venne archiviato per sempre nella memoria storica di famiglia, il problema era stato risolto e quindi non era necessario ritornarci sopra. Giustamente a quell’età non ci feci caso, preferivo andare in giro con la mia bicicletta Celestina, che in effetti era davvero celeste.

Decenni dopo il tema dell’epilessia, parola che a casa mia non era mai stata pronunciata, ricomparve grazie a un libro, più che un libro un capolavoro, L’Idiota di Dostoevskij.

Vivevo a Londra, in una casa orrenda nell’East End, una di quelle fregature che ti prendi solamente quando sei inesperta e senza soldi, e azzardi un salto quantico dall’estrema provincia alla metropoli. Lavoravo come commessa in un negozio di lusso di scarpe. Vendere su commissione era un lavoro che detestavo con tutte le mie forze, incapace di fregare i clienti come facevano i miei colleghi con una scaltrezza da gatti randagi. Sapevano procurarsi da mangiare senza andare troppo per il sottile. Avevano pietà di te solo all’inizio di giornata, il tacito accordo, l’unico a essere rispettato all’unanimità, era che non era ammesso rubare i clienti a chi non aveva fatto la prima vendita, ossia rifilato il primo bidone. Ero sempre l’ultima ad avere “aperto”, un eufemismo che indicava la fine della tregua e annunciava la guerra aperta giornaliera. Nelle pause tra uno scippo e l’altro, mi mettevo a leggere. Sceglievo apposta romanzi lunghissimi, avevo bisogno di esplorare altri mondi, lontani anni luce dal magazzino nel seminterrato. Fu un periodo davvero miserabile risollevato però da magnifiche letture. Credo di non aver mai pianto così tanto leggendo i pensieri del principe Myskin, erano lacrime di riconoscenza.

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