Ardano attraverso la notte, lungamente
le stelle lucentissime.
Ibico
Non avevo ancora tradotto l’Ulisse (1833) di Alfred Tennyson (1809-1892), poeta laureato di epoca vittoriana, celebratissimo, scoraggiata in parte dalla versione aulica di Giovanni Pascoli[1], poi quando l’ho riletta in inglese, mi ha emozionato di nuovo, una visione diversa che si concentra sulla psicologia del personaggio: un cuore libero che non vuole cedere alla ragionevolezza della vecchiaia per continuare a esplorare nuovi mondi di sé. Telemaco invece è legato al suo ruolo, mantenere l’ordine in assenza del padre, una figura indispensabile perché l’avventura possa prendere vita.
Il tema del viaggio mi ha ricordato un documentario che avevo visto tempo fa sul giornalista Terzani, che raccontò con gli occhi velati dalle lacrime che la sua barba gli aveva salvato la pelle in varie occasioni, un camuffamento che aveva scelto per cercare di assomigliare di più all’altro, a chi andava incontro, per fare in modo che si rispecchiasse in lui e si sentisse accolto nel tentativo camaleontico di annullare le distanze in terre straniere forse per ritrovare se stesso.
Ulisse
Serve poco che un re inoperoso,
Vicino a un focolare calmo, fra aride rupi
Unito a una sposa invecchiata, stia a ripartire ed elemosinare
Leggi ineguali a gente selvaggia,
Che accumula, dorme e mangia, e non mi conosce.
Non riesco a non viaggiare, berrò
Fino all’ultima goccia di vita, ogni volta mi sono divertito
Molto, ho sofferto molto, sia con coloro
Che mi hanno amato, che da solo, sulla riva, quando
Tra correnti tumultuose le piovose Iadi
Hanno agitato il mare oscuro: sono diventato un nome;
Perché volevo sempre vagare con cuore affamato;
Molto ho visto e conosciuto, città di uomini,
E costumi, climi, consigli, governi,
E non di meno me stesso, ma onorato da tutti;
Ho bevuto in onore della gioia della battaglia con i miei pari;
Lontano sulle pianure risonanti della ventosa Troia.
Sono parte di tutto quello che ho incontrato;
Eppure tutta l’esperienza è un arco con cui
Si illumina quel mondo inesplorato, i cui confini sbiadiscono
Sempre più appena mi muovo.
Che noioso è fermarsi, mettere una fine,
Arrugginire spento, non risplendere in azione!
Come se respirare fosse vita. Vita ammassata su vita
Sarebbe troppo poco, e di una vita mi rimane
Poco tempo: ma da quel silenzio eterno,
Si risparmia ogni ora, ancora qualcosa,
Uno che apporti opere nuove, sarebbe ignobile,
Per qualche anno risparmiare e mettere da parte,
Questo spirito esperto che arde dal desiderio
Di seguire la conoscenza come una stella cadente,
Fino ai confini estremi del pensiero umano.
Questo è mio figlio, il mio Telemaco,
Al quale lascio lo scettro e l’isola –
Che io amo molto, a cercare di adempiere
Questo compito, con lenta prudenza rendere mite
Un popolo rude, per teneri gradi
Sottometterlo all’utile e al buono.
Egli è più di tutti senza colpa, equilibrato nella sfera
Dei suoi doveri, adatto a non mancare
Nelle tenere usanze, e rispettare il culto convenevole
Dei miei numi tutelari,
Quando me ne sarò andato. Lui fa il suo lavoro, io il mio.
Là c’è il porto. La nave issa le vele:
Laggiù risplendono gli oscuri mari aperti. Miei marinai,
Animi che avete faticato, lavorato e pensato,
Che accoglieste con uguale saluto gioioso sia
Le tempeste che il sole, e opponeste
Cuori liberi, fronti libere – voi ed io siamo vecchi;
E la vecchiaia tuttavia ha un suo onore e un suo fardello;
La morte chiude tutto: ma qualcosa prima della fine,
Qualche impresa di fattura nobile, deve essere ancora svolta,
Da uomini degni che lottarono contro gli Dei.
Le luci cominciano a brillare dalle rocce:
Il lungo giorno declina; la luna sorge lenta; il profondo
Si lamenta attorno con molte voci. Venite, amici miei,
Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo.
Al largo, e sedetevi in ordine per cercare di colpire
I flutti tumultuosi; perché il mio scopo è
Di navigare oltre il tramonto, e i lavacri
Di tutte le stelle occidentali, fino a che non morrò.
Forse gli abissi ci inghiottiranno:
Forse toccheremo le Isole dei Beati,
E rivedremo il grande Achille, che conoscemmo
Anche se perdemmo molto, molto ci resta; e se
Ora non abbiamo la forza che avevamo ai vecchi tempi
Che muoveva terra e cielo; quello che noi siamo, siamo,
Una tempra uguale di cuori eroici,
Resa debole dal tempo e dal destino, ma forte nella volontà
Di lottare, cercare, trovare e non cedere.
[1] Tratta dalla Raccolta del 1938 Traduzioni e Riduzioni, Mondadori, Milano.
Complimenti.
Grazie di cuore 🙂
straordinario: testo, traduzione, argomento e anche il pezzo musicale finale che mi ha emozionato….
Grazie…il pezzo finale è stato scelto con particolare cura, non a caso la cantante si chiama Sophie Hunger (Fame)…”Lasciami andare”…
Questo viaggio di Ulisse ormai è un mito….l’uomo affascinato dall’ignoto; affamato di scoperte ; costruisce la propria identità attraverso le diversità che incontra……
(Penelope ri-troverà un nuovo uomo, non più l’Ulisse di prima… 😉 )
Bel post..
buona giornata
.marta
PS: a mercoledì!
Grazie Marta, sì è un Ulisse invecchiato che non rinuncia mai, scritto da un genio a soli 24 anni. Buona giornata, l’appuntamento con Venezia è stato anticipato a domani, a prestissimo 🙂
Domani….va bene, grazie!
buonecose 🙂
eh c’è stato un cambio di programma perché Cartaresistente va alla fiera del libro a Torino…ciaoooo
Invidiaaaaaaaa 🙂