Circoli tortuosi

English: Walt_Whitman_1940_Issue-5c.jpg Catego...

Mi contraddico? Ebbene sì. Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini.

Walt Whitman

Ieri mi sono messa a leggere alcuni blog letterari, i soliti noti. La cosa che mi ha colpito di più sono stati i commenti dei lettori-autori ai post degli autori, di solito acidi se non stizzosi. Il leitmotiv era sempre lo stesso, “la tua non è letteratura, non sei un bravo scrittore” o nei casi più fortunati, una critica alla sintassi, evidenziata da una frase colpevole di non avere una virgola, un palese refuso, che veniva isolata nello spazio bianco della casella del commento, accompagnata dalla domanda retorica “ma qui cosa intendevi? Era questo quello che volevi scrivere?” – Ovvio che no, è un errore di battitura, non lo vedi?

La cosa più grave, è che alla fine, il malcapitato di turno finiva sempre per soccombere, sbranato dal gruppo, o semplicemente demotivato da un confronto meschino lasciava correre con un laconico “Questo è quello che so fare”, fine del racconto.

Piccoli mondi antichi dove emergono da subito dinamiche di rivalsa o superiorità presunta, chi appoggia l’amico perché ha fatto la recensione dell’amico e forse pubblicherà la sua – il clan nel clan – chi lecca palesemente il culo, chi lo fa con classe, chi invece l’ha già leccato e ormai si sente al riparo da qualsiasi attacco, “il mio posto l’ho conquistato a caro prezzo, quindi non osate nemmeno contraddirmi, adesso faccio come dico io.”

Per chi è più temerario e decide di partecipare a qualche convegno letterario, prima o poi, avrà il piacere di sentire la fatidica frase: “io faccio letteratura”. Ah sì? E come? Ti chiedi in silenzio. Se solo colgono un’espressione di incredulità, sgranano gli occhi inorriditi dal fatto che tu abbia osato metterlo in dubbio. Basta distrarli con domande sul loro ultimo romanzo, e allora immediatamente si illuminano, grati di essere ancora una volta al centro dell’attenzione, capisci che l’unica cosa che ti viene richiesta è ascoltarli, possibilmente dandogli ragione. A volte, sette ore di monologo sono un po’ troppe anche per chi ci mette tutta la buona volontà, finisci per annuire in silenzio con una smorfia sul viso sempre più rassegnata mentre con la mente sei già a casa in pantofole, felice di non fare parte di nessun clan.

Ho sempre ammirato invece lo spirito di gruppo degli Indiani d’America, sempre tifato per loro nei western, destinati a perdere clamorosamente in battaglie impari tra frecce avvelenate e colpi micidiali di fucile, pronti a difendere la loro tribù fino alla morte, autori di frasi talmente sagge che i visi pallidi dovevano farsele ripetere almeno due volte per capirle, poi alla fine li massacravano lo stesso, ma non avresti dimenticato mai più lo sguardo fiero di Vento nei Capelli.

“La rana non si ingozza mai di tutta l’acqua dello stagno in cui vive”, mi ricorda un vecchio proverbio Sioux. Per un attimo mi sento invasa da un nuovo proposito, è arrivato il momento di mettere in pratica la temperanza, termine che ho solo usato in qualche versione dal latino, poi guardo la periferia devastata, un paesaggio urbano assolutamente desolato, e inevitabilmente riaffiora una strana nostalgia.

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