Spinoza riflesso in versi

 

“Non si discute per aver ragione ma per capire.”

Jorge Luis Borges

Ho scoperto che in Italia esiste un concorso letterario dedicato a chi vuole scrivere una poesia sulle opere di Baruch Spinoza (1632-1677). Quest’anno è stato annullato ma chissà forse verrà riattivato il prossimo. Una vita intensa, seppure breve, impiegata nella redazione di un’opera fondamentale per il pensiero occidentale, l’Ethica, uscita postuma nel 1677 insieme al Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Il Trattato su Dio, l’uomo e la felicità, scritto intorno al 1660, venne invece pubblicato solamente nell’ ‘800. Un filosofo che pagò a caro prezzo l’amore per la sua indipendenza, allontanato dalla stessa famiglia, scomunicato e bandito dalla Sinagoga, rinunciò alla cattedra universitaria perché temeva che potesse compromettere la sua libertà di pensiero e accettò un impiego come molatore di vetri ottici. Un mestiere che stranamente ha qualche attinenza con la sua ricerca, riformulare una nuova visione. In Spinoza, il pensiero cartesiano prende una direzione nuova, res cogitans e res extensa diventano due infiniti attributi della sostanza di Dio. Dio è l’unica sostanza esistente, “tutto ciò che è, è in Dio, senza Dio, nessuna cosa può essere, né essere concepita.” Dio viene descritto come necessità assoluta di essere, da cui derivano gli infiniti attributi e gli infiniti modi che costituiscono il mondo. Come dall’infinito si arrivi al finito non viene spiegato, resta un’aporia.

La ricerca della felicità non sta nel conseguire né i piaceri dei sensi, né le ricchezze, né gli onori che devono essere visti solo come mezzi, e mai come fini, per vivere in funzione di un obiettivo supremo. La distinzione tra bene e male rimane un fatto assolutamente interpretativo privo di valenza oggettiva: “…Il bene e il male non indicano nulla che esista ontologicamente nelle cose considerate in sé oggettivamente, ma sono essi pure ‘modi di pensiero’ e nozioni che l’uomo si forma paragonando le cose fra loro e riportandole a sé.”

Si parte da Dio per ridare un significato nuovo all’uomo. Per capire meglio il senso, ecco che ancora una volta ci viene incontro la poesia. Nell’impresa di tradurre in versi il pensiero spinoziano si è già cimentato a suo tempo un altro scrittore illuminato, Jorge Luis Borges, lasciandoci due splendidi ritratti rivelatori.

Baruch Spinoza

 

L’occaso, caligine d’oro, barbaglia

Sulla finestra. L’assiduo manoscritto

Aspetta, già pregno di infinito.

Qualcuno costruisce un Dio nella penombra.

Un uomo genera un Dio. È un ebreo

Di tristi occhi e di pelle olivastra;

Il tempo lo trasporta come trascina il fiume

Una foglia nell’acqua che discende.

Non importa. Il mago insiste e forgia

Dio con geometria raffinata;

Dalla sua debolezza, dal suo nulla,

Seguita a modellare Dio con la parola.

Il più generoso amore gli fu largito,

L’amore che non chiede di essere amato.

 

Spinoza

 

Le diafani mani dell’ebreo

Tagliano nella penombra le lenti;

Muore la sera tra paura e freddo.

(Le sere sono uguali a ogni altra sera.)

Ma le mani e lo spazio di giacinto

Che impallidisce il confine del Ghetto

Appena esistono per l’uomo quieto

Che sta sognando un chiaro labirinto.

Non lo turba la fama, che è riflesso

Di altri sogni nel sogno dello specchio,

Né l’amore pudico delle vergini.

Libero da metafora e da mito

Intaglia un arduo vetro: l’infinito

Ritratto di Chi è tutte le sue stelle.[1]


[1] Tratta dalla raccolta a cura di Domenico Porzio, L’altro, lo stesso, ne I Meridiani, Jorge Borges, Mondadori, Milano, 1998.









			

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