Reason in madness
Re Lear è stata la prima tragedia che ho letto di Shakespeare, e probabilmente quella che ricordo meglio forse perché studiata con la premura del principiante… c’è una scena, che ogni volta che rileggo, di una forza straordinaria, siamo quasi alla fine di tutto, Re Lear vaga nelle lande desolate, le figlie si sono spartite il regno come volevano, il conte di Gloucester, che ha tentato di salvare il salvabile, viene torturato, accecato e abbandonato al suo destino. Non è solo, al suo fianco compare il figlio Edgar, che lui crede in esilio, nelle parti e vesti di un mendicante folle, che lui invece tratta come un buffone di poco conto. Sarà proprio il buffone a salvargli la vita, quando Gloucester, ormai esausto, vuole farla finita e chiede a Edgar di accompagnarlo in cima alla scogliera, Edgar finge di assecondarlo, descrivendogli un finto paesaggio a precipizio sul mare:
Ecco. Siamo arrivati. Fermo qui. Fa paura. Gira la testa, a ficcare gli occhi laggiù nello sprofondo. I corvi e le cornacchie che battono d’ala l’interposto cielo sembrano appena scarabei. A mezza costa giù, appeso a una corda – spaventoso mestiere! – c’è uno che raccoglie il finocchio marino nei crepacci; e non pare più grosso là della sua testa qui. Topi appaiono pescatori in fila sulla battima; e non sembra quel grosso barco laggiù alla fonda, grosso più della scialuppa; e la scialuppa non più di un gavitello che da qui si distingue sí e no. Il flutto dei marosi che mormora e spumeggia sulle fitte ghiaiole pigre del greto, non si arriva a sentire da quassù alto. Non voglio più guardare, che non m’abbia da cogliere la vertigine: e la vista, piombar giù a capofitto.[1]
E Gloucester:
O dèi potenti, rinuncio a questo mondo sotto gli occhi vostri qui mi scrollo di dosso, rassegnato, la mia immensa miseria. Se io potessi trascinarmela ancora e non mettermi in contrasto coi vostri decreti ineluttabili, lo stoppino di quell’odioso moccolo di vita che mi rimane, arderebbe fino in fondo. Se Edgardo è vivo, oh proteggetelo voi! Va’ giovinotto, puoi andare; addio.[2]
E il salto nel vuoto è una caduta soffice sull’erba.
[1] Re Lear, Einaudi, 1969, Atto IV, scena VI, pp. 482-483, traduzione a cura di Cesare Vico Lodovici.
[2] Ibidem, p. 484.