La prossima mostra che mi piacerebbe andare a vedere – uso il condizionale perché con tutti questi DPCM si può programmare ben poco – è la mostra a Ferrara, dedicata ad Antonio Ligabue (1899-1965), una vita d’artista, con i suoi autoritratti di animali e le sue sculture.
Ricordo ancora lo sceneggiato di Salvatore Nocita con Flavio Bucci e il suo sguardo perso nelle nebbie di Gualtieri, quando scortato da due gendarmi viene portato a “casa” del padre adottivo. A vedere scorrere il paesaggio piatto con i casolari spogli, che ritorna immutato nel tempo ogni volta che si fissa fuori dal finestrino del treno, quelle tigri feroci gridano vendetta.
Autodidatta, incoraggiato dallo scultore Marino Mazzacurati, “el Matt” dipinge animali, paesaggi infuocati, campi verdissimi e cieli azzurri intensi.
Da poco sono state rese pubbliche le sue cartelle cliniche – soffriva di depressione – nei diversi ricoveri a Reggio nell’Emilia. Parlava poco e imitava i versi degli animali nelle sue escursioni sulle rive del Po. Nel 1937 alla voce professione viene scritto “nessuna”, nel 1945 viene aggiunto “pittore povero”. In manicomio gli viene concesso di dipingere sempre, per quanto le cure fossero inadeguate, i dottori constatano che l’arte ha su di lui un potere “calmante”…
Barattava i suoi dipinti in cambio di un bicchiere di vino, girava per le osterie con una moto da cui cadeva spesso perché ubriaco. Dipingeva su tutto, su masonite, pezzi di legno che raccattava in campagna, incideva tavoli con forchette e utensili improvvisati. Quando negli anni ’70 Zavattini andò a perlustrare i luoghi abitualmente frequentati da Ligabue, si attivò una vera e propria caccia al tesoro dei quadri del pittore, comprati con pochi spiccioli e rivenduti a caro prezzo, una volta diventato famoso. Molti si pentirono di aver buttato via tutto, non perché gliene importasse granché dei quadri, ma dei soldi sì.
Ha prodotto più di 120 ritratti, “dammi un bacio” era la sua frase più usata.