Captain Beefheart aka Cuore di Bue

Captain Beefheart & The Magic Band

 

 

 

 

 

 

 

Ho avuto un’esistenza strampalata e disordinata, in buona parte terribile, assolutamente ingrata. Ma credo che sia il modo in cui mi sono trascinato in mezzo alla merda a fare la differenza.

Charles Bukowski, Il Capitano è fuori a pranzo

Tra tutti i capitani, Achab e la balena bianca, la poesia dedicata a Lincoln di Whitman “O capitano! Mio capitano!”, le avventure del capitano Kirk e la sua Enterprise, a me è sempre piaciuto Captain Beefheart, Cuore di Bue, Don Van Vliet (1941-2010). Grazie ad Alessandro Pizzin che ha organizzato lo scorso week-end a Mestre una kermesse musicale in memoria di Frank Zappa, sabato sono andata a vedere un documentario sulla sua vita. Non mi soffermo sui dettagli della sua tecnica, il tipico “singhiozzo” sincopato da bluesman ispirato a Howlin’ Wolf e la capacità di mescolare generi diversi, all’epoca sperimentali, jazz, rock, psichedelia elettrica, il capitano andava avanti per la sua strada. A giudicare dagli interventi dei critici musicali inglesi un po’ spocchiosi, “non si possono rompere le regole se le regole non si conoscono”, gli sforzi sono stati notevoli al limite del famoso esaurimento di idee e di risorse. Musicisti isterici che dopo ore di prove estenuanti abbandonavano la magic band per incompatibilità, al punto da lasciarlo completamente solo a fare un tour disastroso con un gruppo pagato per l’occasione, la solitudine dei numeri primi, con la tipica tempra da condottiero che urla alla ciurma confusa, tentando di salvare il salvabile, con il mare in tempesta.

Tra i suoi collaboratori storici mi ha colpito il batterista John French, che rispondeva come se fosse una cosa normale da un telefono appeso a un ramo di un albero, ricordando tutti gli aneddoti legati alle varie incisioni con una precisione robotica. Gary Lucas, considerato uno dei migliori chitarristi americani, sembrava uscito da un film horror, seduto su un letto di un motel con una figura al suo fianco coperta da un copriletto verde scuro, come in un quadro cupo di Hopper, capello in testa da cowboy, occhiali da sole, ma serio e puntuale, nonostante i dettagli sullo sfondo fossero davvero poco rassicuranti. Sfidando gli abissi il capitano ha continuato a incidere dischi, numerose battaglie legali con le casi discografiche, litigi con vari manager, rotture di amicizie e di magiche alleanze, con l’idea di spingere sempre più la sua sperimentazione in territori oscuri, a costo di tutto e di tutti. Poi nel 1982, dopo 14 album, si è ritirato nella sua casa in California ed è tornato al primo amore, mai dimenticato, la pittura. Alcune sue opere sono esposte al MoMa. E io ritorno a una delle sue prime perfomance, “Electricity”…

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