Mentre Astolfo con il suo ippogrifo vaga sulla luna alla ricerca del senno di Orlando, e lo trova intatto in un’ampolla, il paesaggio lunare in Sylvia Plath (1932-1963) rivela invece un altrove grigio e monotono, un universo molto simile ai lunedì poco rassicuranti di ogni inizio settimana: una poesia scritta nella primavera del 1958 dal titolo scoraggiante L’eterno lunedì, ignorata per anni dalla critica.
In Inghilterra, la patria della conversazione spicciola dove ti ritrovi a discutere per ore sulla meteorologia senza dire altro, di fatto una scelta eroica mentre osservi un cielo plumbeo che lascia poco spazio alla fantasia, il lunedì è davvero un giorno temuto, annunciato dall’espressione rassegnata ma significativa “back to Mondays”, si ritorna ai lunedì, al lavoro con colleghi dentoni con cravatte improbabili. In ufficio ti abituano fin da subito alla solita domanda che ti faranno ogni lunedì, che è ormai un evergreen, “did you have a nice week-end?”, dove quel nice ti dice già che non devi raccontare le tue magagne, non essere troppo breve con un laconico sì che chiuderebbe in modo scortese la conversazione ma nemmeno troppo prolisso, una via di mezzo oraziana, possibilmente brillante. Il venerdì sai già che ti aspetta l’altro tormentone, “Any plans for the week-end?”, la promessa di un’agognata felicità programmata in cui gli altri possano riconoscere un loro frammento di sogno.
Sylvia Plath invece si spinge oltre, superando la soglia della correttezza formale con grazia risoluta.
L’eterno lunedì
Avrai un lunedì
Eterno e te ne starai sulla luna.
L’uomo della luna se ne sta nel suo guscio
Curvo sotto un fascio
Di stecchi. La luce cade come gesso freddo
Sul nostro copriletto.
Batte i denti tra picchi
Squamosi e crateri di quei vulcani estinti.
Anche lui contro quel gelo nero
Raccoglieva stecchi, non si riposava
Fino a che la sua camera accesa non ecclissava
Il fantasma di sole della Domenica;
Ora lavora il suo inferno di Lunedì nella sfera della luna,
Spento, sette mari gelidi incatenati alla caviglia.
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The everlasting Monday
Thou shalt have an everlasting
Monday and stand in the moon.
The moon’s man stands in his shell,
Bent under a bundle
Of sticks. The light falls chalk and cold
Upon our bedspread.
His teeth are chattering among the leprous
Peaks and craters of those extinct volcanoes.
He also against black frost
Would pick sticks, would not rest
Until his own lit room outshone
Sunday’s ghost of sun;
Now works his hell of Mondays in the moon’s ball,
Fireless, seven chill seas chained to his ankle.
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A questo punto, è necessaria, almeno per me, un’illuminazione musicale di Sun Ra (1914-1993), musicista e genio visionario che ha saputo attraversare e regalarci altri orizzonti…