L’eterno lunedì

Orlando Furioso 4

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
Son là su, che non so qui tra noi;
Altri piani, altri valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai più le magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
 
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quell’effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
 
(Orlando Furioso, canto XXXIV, ottave 72-73)

Mentre Astolfo con il suo ippogrifo vaga sulla luna alla ricerca del senno di Orlando, e lo trova intatto in un’ampolla, il paesaggio lunare in Sylvia Plath (1932-1963) rivela invece un altrove grigio e monotono, un universo molto simile ai lunedì poco rassicuranti di ogni inizio settimana: una poesia scritta nella primavera del 1958 dal titolo scoraggiante L’eterno lunedì, ignorata per anni dalla critica.

In Inghilterra, la patria della conversazione spicciola dove ti ritrovi a discutere per ore sulla meteorologia senza dire altro, di fatto una scelta eroica mentre osservi un cielo plumbeo che lascia poco spazio alla fantasia, il lunedì è davvero un giorno temuto, annunciato dall’espressione rassegnata ma significativa “back to Mondays”, si ritorna ai lunedì, al lavoro con colleghi dentoni con cravatte improbabili. In ufficio ti abituano fin da subito alla solita domanda che ti faranno ogni lunedì, che è ormai un evergreen, “did you have a nice week-end?”, dove quel nice ti dice già che non devi raccontare le tue magagne, non essere troppo breve con un laconico sì che chiuderebbe in modo scortese la conversazione ma nemmeno troppo prolisso, una via di mezzo oraziana, possibilmente brillante. Il venerdì sai già che ti aspetta l’altro tormentone, “Any plans for the week-end?”, la promessa di un’agognata felicità programmata in cui gli altri possano riconoscere un loro frammento di sogno.

Sylvia Plath invece si spinge oltre, superando la soglia della correttezza formale con grazia risoluta.

L’eterno lunedì

 

Avrai un lunedì

Eterno e te ne starai sulla luna.

L’uomo della luna se ne sta nel suo guscio

Curvo sotto un fascio

Di stecchi. La luce cade come gesso freddo

Sul nostro copriletto.

Batte i denti tra picchi

Squamosi e crateri di quei vulcani estinti.

Anche lui contro quel gelo nero

Raccoglieva stecchi, non si riposava

Fino a che la sua camera accesa non ecclissava

Il fantasma di sole della Domenica;

Ora lavora il suo inferno di Lunedì nella sfera della luna,

Spento, sette mari gelidi incatenati alla caviglia.

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The everlasting Monday

Thou shalt have an everlasting

Monday and stand in the moon.

The moon’s man stands in his shell,

Bent under a bundle

Of sticks. The light falls chalk and cold

Upon our bedspread.

His teeth are chattering among the leprous

Peaks and craters of those extinct volcanoes.

He also against black frost

Would pick sticks, would not rest

Until his own lit room outshone

Sunday’s ghost of sun;

Now works his hell of Mondays in the moon’s ball,

Fireless, seven chill seas chained to his ankle.

§

A questo punto, è necessaria, almeno per me, un’illuminazione musicale di Sun Ra (1914-1993), musicista e genio visionario che ha saputo attraversare e regalarci altri orizzonti…

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