C’è un libro di poesie a cui sono molto legata, è il Divano Occidentale [1], raccolta che richiama parzialmente un titolo di goethiana memoria [2] ma che opta per una scelta ben più radicale, già occidentalizzata: il materiale islamico viene presentato già tradotto in italiano e ordinato secondo una semplice sequenza cronologica, senza note o schede biografiche degli autori, una scelta stilistica che mette in evidenza la liricità dei singoli componimenti e ne fa apprezzare in pieno il senso.
Per ghazal generalmente si intende la “canzone o elegia d’amore”, di solito oscilla tra i 5 e i 15 versi, ma può avere delle varianti più lunghe. Ogni verso rima con gli altri, l’ultimo verso contiene quasi sempre lo pseudonimo poetico o nom de plume dell’autore, tradotto anch’esso in scansione poetica.
Fra tutti i ghazal, il mio preferito è il LXXV, del poeta guerriero Kosh-Hal Khan (sec. XVII), l’unico autore afghano presente nel canzoniere. Qui l’attraversamento di territori oscuri è già avvenuto, una lucida consapevolezza.
Non mi addolora più l’aspro destino,
perché ancora una volta
io da bravo serpente inanellato
sono stato capace
di scrollarmi di dosso la mia pelle.
L’ho gettata in un canto e sono andato
nuovamente tenace
a controllare ancora
se fortuna m’ha proprio abbandonato.
E ho fatto molto bene,
perché una luce c’è che brilla ancora:
l’occhio lustro del sole,
non l’appanna la neve una stagione!
Oh, la grazia più vera
che può farci il Signore
è darci una lunghissima pazienza,
sì che noi ci s’adatti,
rinunciando a morire di dolore.
Confesso di essere stato trascinato
verso tutti i mercati:
m’è servito ad intendermi dei prezzi.
E se ho visto l’autunno in agguato
avido di massacri
di foglie morte a cumuli ai suoi piedi,
di lì a poco ho constatato
come sprizzi la gemma
umida a primavera.
M’hanno voluto dare
soprannomi felici
come si danno ai re.
L’augurio è ben accetto:
m’hanno deposto, e io mi riprendo il trono.
[1] Divano Occidentale, a cura di Gianroberto Scarcia, Edizioni Il cavaliere azzurro, 1986.
[2] Il Divano occidentale-orientale, scritto tra il 1814 e il 1827. Goethe lo definì: “incondizionato abbandono all’insondabile volontà di Dio, contemplazione serena della mobile attività terrena, che si ripete sempre in cerchio o a spirale, amore, inclinazione che ondeggia tra due mondi, tutto il reale spiegato e risolto nel simbolo.”