L’uomo gioca sempre a partire dal centro della sua vita anche quando si disperde in cento maschere
E. Fink
Finalmente sono riuscita a vedere L’anno scorso a Marienbad, considerato il capolavoro incompreso di Alain Resnais, con la sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 1961, un film in bianco e nero che non contempla l’ossimoro, o si ama o si odia, c’è chi alza gli occhi al cielo e ti augura buona fortuna! Non vado in Francia da anni, e quindi il mio francese è decisamente arrugginito, ma sentire Albertazzi recitare la sequenza di ricordi ordinati come un loop ossessivo, trascinando le parole contro voglia in una cantilena di quadri statici, con l’accento di un immaginario friulano francese, “le park de set otel eté un sort de giarden sans arbr, sans fleeer, sans vegetasión ocun, le gravié, la pieeeeer, le marbr…”[1], (= il parco dell’hotel era una specie di giardino alla francese, senza alberi, senza fiori, senza nessuna vegetazione; il ghiaino, la pietra, il marmo…), mi ha riportato indietro nel tempo, paradossalmente mi ha fatto resistere, la lingua diventava famigliare, un tepore distante, a volte sbirciavo i sottotitoli in inglese che però coprivano le architetture sontuose, i corridoi di specchi, e parte dei mobili decorati. Se si vuole ridurre il film a una trama di riferimento, il canovaccio è il solito triangolo amoroso, una donna e due uomini, il marito e l’amante, in vacanza in un hotel di lusso che potrebbe essere in Francia o in Germania. Qui siamo di fronte a un enigma che non ha soluzioni, solo indizi, ci si perde nel labirinto di molteplici conversazioni possibili che cambiano secondo il punto di vista dell’osservatore, le versioni non coincidono, distorte non solo dai racconti diversi dell’uomo e della donna misteriosa, incorniciati in frammenti scenici che inseguono la coppia in lunghi corridoi di specchi, in stanze popolate da un pubblico assente, voyeur e muto, intento a giocare, distratto dalle rappresentazioni teatrali, dal teatro nel teatro, spettatore come noi delle fredde amenità di un luogo irreale e stranamente vivo come un sogno. L’uomo sostiene di essere stato l’amante della donna misteriosa, interpretata da Delphine Seyrig, l’anno prima a Marienbad o a Frederiksbad, si erano ripromessi di rivedersi dopo un anno per scappare insieme, la donna nega, dice di non averlo mai visto, però continuano a incrociarsi, nel parco, nella sala dell’hotel, li vediamo abbracciati in un lento, appoggiati a una colonna mentre lui la accarezza e lei lo respinge svogliatamente… lui sa tutto di lei, le descrive gli abiti, la sua camera da letto, i loro dialoghi segreti, lei scuote la testa ma lo ascolta, e allora per scuotere la sua diffidenza le mostra delle foto scattate l’anno prima nello stesso luogo, lei in un abito bianco su una panchina, un accenno di sorriso, “è impossibile”, ripete lei, “è impossibile”, mentre le lacrime sul viso alludono a tutt’altro. L’altro uomo, presumibilmente il marito, vede non visto l’agguato di un possibile tradimento e decide di passare all’azione, sfida il rivale a un gioco d’azzardo, il nim, di origine cinese, diffuso in Europa nel Cinquecento, in tedesco conosciuto come nimm, che significa prendere…semplice solo in apparenza, si tratta di togliere dei fiammiferi da una sequenza di righe, le regole prevedono che si scelga uno o più fiammiferi solo da una riga alla volta, perde chi rimane con un solo fiammifero, gli accorda un vantaggio facendolo iniziare per primo. Il presunto amante accetta, ma non sa che il gioco è basato su una serie logaritmica, invece di prendere sempre un numero pari di fiammiferi che lo farebbe vincere, gioca con irruenza e perde nonostante il vantaggio iniziale. La scena si ripete altre volte, con carte, invece di fiammiferi, e l’uomo perde tutte le volte – secondo i puristi la versione in cui il giocatore rimane con un unico fiammifero si chiama “marienbad”, come il luogo del film. Chissà forse se avesse vinto il gioco, la storia avrebbe preso una direzione diversa, ma non lo sappiamo, come non sappiamo chi mente, chi dice la verità, se la ripetizione del gioco è un rimprovero che lui fa a se stesso per aver perso, se il marito spara alla donna, se lei muore – il manto di piume che lei indossa da bianco diventa nella scena successiva nero – se è invece tutto un sogno, una fissazione, se lei è soltanto una donna visione che vive nei suoi ricordi, accompagnati da una colonna sonora che è un lamento sommesso, né terreno né ultra-terreno, che non ha però nulla di umano. Nell’apparente immobilità di rigide simmetrie, nel giardino alla francese, “senza alberi, senza nessuna vegetazione, il ghiaino, la pietra, il marmo”, dove l’orizzonte è sempre uguale a se stesso, continuiamo a perderci, inseguiamo con lo sguardo i loro passi incerti finché l’uomo e la donna si dissolvono nel paesaggio, nuovamente soli insieme…
[1] cit. francese: Le parc de cet hôtel était une sorte de jardin à la française, sans arbres, sans fleurs, sans végétation aucune ; le gravier, la pierre, le marbre…